In tutto il mondo da alcuni decenni si assiste ad una concentrazione della ricchezza finanziaria nelle mani di un numero sempre più ristretto di individui (come misurato dall’indice di Picketty).
In particolare la crescita dell’economia è sempre più slegata dalla creazione di nuovi posti di lavoro, fenomeno che si presenta già dagli anni ‘60 del ‘900, e diventa sempre maggiore la preoccupazione legata alla distruzione di posti di lavoro conseguente all’automazione ed alla introduzione i tecnologie legate all’AI.
Tali fenomeni possono avere effetti differenti se si interviene sulla proprietà e sulla gestione dei mezzi di produzione.
In particolare occorre passare dall’attuale sistema basato su corporation possedute da azionisti distanti dalla gestione dell’impresa e interessati solo all’andamento a breve termine del titolo ed a incassare dividendi, ad una forma di proprietà che coinvolga i lavoratori ed i territori nei quali l’azienda opera. Non per sostituire la gestione statale a quella del capitalista, come in passato si tentò, ma per fare partecipare alla gestione dell’impresa i principali portatori di interesse, in primo luogo i lavoratori e le comunità locali. La forma di gestione può essere quella cooperativa.
L’obiettivo è quello di mettere i mezzi di produzione in mano ad un ‘capitale paziente’ che abbia obiettivi di medio e lungo periodo e permetta una gestione di impresa oculata ed attenta ad un corretto uso di tutte le risorse.
Del resto è evidente che ci si trova in una situazione in cui: 1) non è possibile pensare ad uno sviluppo in crescita continua (cfr. Mazzucato e Raworth); 2) abbiamo una sovrapproduzione di beni; 3) le risorse naturali sono sovrasfruttate; 4) la distribuzione, iniqua, della ricchezza sta portando a tensioni incontrollabili.
Occorre quindi restituire alla politica un ruolo di controllo e regolazione dell’economia, in un’ottica democratica, con la consapevolezza che solo la dimensione europea può rendere realizzabili ed efficaci tali politiche.